Tecniche di coltivazione, malattie, concimazione, varietà, semine, trapianti e raccolta - Consigli e curiosità su serre, orti familiari, ecc.
10/08/2012, 16:03
V [La banca e la trattrice. Mostri senza volto che divorano la terra]
I latifondisti arrivavano sul posto, o più spesso i loro rappresentanti. Arrivavano in macchina, e saggiavano con le dita la terra arida, e qualche volta facevano eseguire dei sondaggi in profondità. I mezzadri, sulle aie assolate, stavano inquieti a seguire con gli occhi le vetture fare il giro degli appezzamenti. E finito il giro i latifondisti, o i loro rappresentanti, venivano sull’aia e senza scendere dalle vetture parlavano ai mezzadri attraverso il finestrino. Per qualche tempo i mezzadri restavano in piedi al fianco delle vetture, poi s’accoccolavano per terra, e cercavano dei fuscelli per disegnare figure nella polvere.
Sulle soglie dei casolari le donne s’affacciavano a guardare, e dietro di loro i bambini: teste bionde, occhi dilatati, piedi nudi l’uno accavallato sull’altro, le dita nervosamente agitate dalla curiosità. Donne e bambini guardavano il capofamiglia conferire col latifondista. Immobili, silenziosi.
Taluno dei rappresentanti si mostrava umano perché odiava la parte ch’era costretto a recitare, e taluno era irritato di dover mostrarsi disumano, e taluno si mostrava freddo e insensibile perché da tempo aveva imparato che il padrone, per essere tale, deve necessariamente mostrarsi insensibile. E nel loro intimo tutti quanti si riconoscevano, a malincuore, strumenti d’una forza inesorabile. Alcuni di essi detestavano le cifre che li costringevano ad agire così, altri le temevano, altri ancora le veneravano perché offrivano loro un rifugio contro la ragione e il sentimento. Se il proprietario della terra era una banca, o una società fìnanziaria, i rappresentanti dicevano: La Banca (o la Società) intende... vuole... ha bisogno... esige... quasi che la Banca o la Società fosse un essere mostruoso, dotato di intelletto e sentimento, che li tenesse prigionieri tra i suoi tentacoli. Né s’assumevano alcuna responsabilità in nome della banca o della società, in quanto essi si ritenevano esseri umani e schiavi, laddove le banche erano al tempo stesso macchine e padroni. Alcuni rappresentanti erano orgogliosi d’essere schiavi di così possenti e inesorabili padroni. Sedevano sui cuscini della vettura e spiegavano: Lo sapete anche voi che la terra è povera. Dio solo sa quanto lavoro e sudore ci avete sprecato su.
I mezzadri accoccolati annuivano, sconcertati, e disegnavano figure nella polvere. Sì, lo sappiamo, Dio lo sa. Se solo la polvere non se ne volasse via, se solo la pianta resistesse radicata nel terreno, la situazione potrebbe essere diversa.
I rappresentanti insistevano nel loro punto di vista: Sapete anche voi che la terra diventa sempre più povera. Sapete anche voi cosa fa il cotone alla terra: la impoverisce, ne succhia tutto il sangue.
Gli uomini accoccolati annuivano: Lo sappiamo, Dio lo sa. Se solo ci fosse consentita la rotazione delle colture, si potrebbe infonderle sangue nuovo.
Già, ma è troppo tardi. E i rappresentanti illustravano le necessità e il modo di ragionare del mostro che era più forte di loro. Se uno riesce a provvedere al suo sostentamento e a pagare le tasse, può conservarla, la terra, certo che può.
Sì, ma se un anno manca il raccolto, la banca deve venirci in aiuto, coi prestiti.
Oh, ma la banca o la società non può, diamine! Non è una creatura che respira aria, che mangia polenta. Respira dividendi, mangia interessi. Senza dividendi, senza interessi, muore, come morireste voi senz’aria o senza polenta. È triste, ma è proprio così.
Gli uomini accoccolati alzavano gli occhi cercando di capire. Ma se ci lasciano stare, forse l’anno venturo avremo un buon raccolto. Dio sa quanto cotone l’anno venturo. Con tutte queste guerre, Dio sa come andrà su il prezzo. Non fanno gli esplosivi col cotone? Non fanno le uniformi dei soldati? Combinateci delle guerre, e vedrete come va su il cotone. L’anno venturo, forse. Guardavano in su, con occhi pieni di speranza.
Eh, ma non si può contare sulle guerre. La banca... il mostro ha bisogno di dividendi costanti, non può aspettare, altrimenti va a rotoli. No, le tasse vanno pagate. Se il mostro cessa di crescere, è perduto. Non può fermarsi.
E bianche morbide dita cominciavano a picchiettare sul riquadro del finestrino, e dure dita callose serravan più stretti i fuscelli irrequieti. Sulle soglie dei casolari assolati le donne sospiravano, poi cambiavano posizione ai piedi e l’agitazione dei pollici ora denotava apprensione. S’avvicinavano, guardinghi, i cani a fiutare la vettura e bagnavano i quattro pneumatici l’uno dopo l’altro. Razzolavano le galline nell’aia soleggiata e s’arruffavano le penne per infiltrarsi la polvere fin sulla pelle. Nei porcili grugnivano i maiali levando il muso, come a reclamare, dagli avanzi melmosi della brodaglia.
Gli uomini accoccolati riabbassavano gli occhi. E cosa volete che facciamo? Non possiamo rinunziare a una parte del raccolto, siamo già mezzi morti di fame. I piccoli non hanno abbastanza da mangiare. Siamo coperti di stracci. Se non fossimo tutti nelle stesse condizioni, avremmo vergogna di farci vedere in chiesa.
E alla fine i rappresentanti venivano al dunque. La mezzadria era un sistema che non funzionava più. Un uomo solo, sulla trattrice, ora sostituisce dodici, quattordici famiglie. Gli si dà un salario e si prende tutto il raccolto. Non c’è scampo. È doloroso, ma è così. Il mostro è malato: qualcosa gli è accaduto.
Ma a furia di cotone la fate morire, la terra.
Lo sappiamo, ma prima che muoia vogliamo tutto il cotone che può darci. Poi la venderemo. C’è un mucchio di famiglie, nell’Est, che non sognano altro che comprare un pezzo di terra.
I mezzadri alzavano gli occhi, pieni di spavento. E noialtri? Come si mangia?
Eh, a voi non resta che andarvene altrove. Viene la trattrice.
Ed ora gli uomini accoccolati si rizzavano in piedi, furenti. Ma questa terra l’ha presa mio nonno agli indiani, rischiando la pelle. E mio padre c’è nato e l’ha lavorata, lottando da disperato contro i serpenti e le erbacce. È venuto un anno cattivo e ha dovuto ipotecare. E noialtri siamo tutti nati qui. Ecco là i nostri bambini... anche loro sono nati qui. Anche allora, quando mio padre ha fatto l’ipoteca, anche allora il padrone era la banca, ma ci ha lasciati stare, e ci spettava un tanto su ogni prodotto.
Tutto questo lo sappiamo, ma non siamo noi, è la banca. Una banca non è mica un uomo. E neanche è un uomo il padrone di cinquantamila acri. Non è altro che il mostro.
Va bene, gridavano i mezzadri, ma la terra è nostra. L’abbiamo misurata noi, dissodata noi. Siamo nati qui, qui ci hanno ucciso, qui siamo morti. Anche se non è buona, è nostra lo stesso. È l’esserci nati, l’averla lavorata, l’esserci morti, che la fa nostra. È questo che ce ne dà il possesso, e non una carta con dei numeri sopra.
È doloroso, ma noi non c’entriamo. È il mostro. La banca non è un essere umano.
Va bene, ma è una società di esseri umani.
Niente affatto. Questo è il vostro errore. La banca è qualcosa di diverso da un essere umano. Capita che chiunque faccia parte di una banca non approvi l’operato della banca, eppure la banca lo fa lo stesso. Vi ripeto che la banca è qualcosa di più di un essere umano. È il mostro. L’hanno fatta degli uomini, questo sì, ma gli uomini non la possono tenere sotto controllo.
I mezzadri gridavano. Per avere la terra mio nonno s’è battuto con gli indiani, mio padre s’è battuto coi serpenti, a noialtri ci toccherà di batterci contro le banche, che son peggio degli indiani e dei serpenti. Vuol dire che ci batteremo, per tenerci la nostra terra, come han fatto i nostri nonni e i nostri padri.
E adesso i rappresentanti montavano in collera. Dovete andarvene.
Ma è nostra, urlavano i mezzadri. Noi...
No, è della banca, è del mostro. Dovete andarvene.
E se prendiamo i fucili, come il nonno quando vennero gli indiani? E allora?
In questo caso l’avrete a che fare con lo sceriffo, prima, e poi con la truppa. Non capite che, se v’ostinate a restare, contravvenite alla legge sulla proprietà, e che se fate uso delle armi siete dei delinquenti?
Il mostro non è un essere umano, ma può servirsi degli uomini per ottenere quello che vuole.
E se andiamo via, dove andiamo? Come andiamo? Non abbiamo un centesimo.
È doloroso, dicevano i rappresentanti, ma la banca, il padrone di cinquantamila acri, non è responsabile di questa situazione. Voialtri vi trovate su terreni che non vi appartengono. Fuori di qui, in un altro stato, adesso che viene l'autunno potete mettervi a coglier cotone. Potete magari ottenere il sussidio. Perché non andate in California? Là hanno bisogno di manodopera, il clima è ottimo, non fa mai freddo, basta allungare il braccio per cogliere un'arancia, c'è ogni sorta di lavoro; perché non ve ne andate là?
E i rappresentanti mettevano in moto e ripartivano.
E i mezzadri s'accoccolavano di nuovo a disegnare figure nella polvere, a calcolare, a considerare la situazione, brusche le facce abbronzate, minacciosi gli occhi riarsi dal sole. Dalle soglie dei casolari le donne si facevano avanti timorose verso i mariti, seguite dai bambini anch'essi timorosi e pronti a scappare al primo allarme. I ragazzi più alti s'accoccolavano vicino al padre, per sentirsi adulti. E dopo un poco le donne domandavano: Cosa voleva?
E i capifamiglia guardavano su per un attimo, con gli occhi dell'afflizione. S'ha da far fagotto. Viene la trattrice, e un sovrintendente, come nelle fabbriche.
E dove andremo? domandavano le donne.
Non lo sappiamo. Non lo sappiamo.
E le donne rincasavano in fretta e in silenzio, spingendosi innanzi i bambini. Sapevano che l'uomo, in tale stato di preoccupazione e di angustia, può facilmente montare in collera e prendersela anche coi suoi. Lasciavano i mariti soli a calcolare e deliberare nella polvere.
Di lì a poco forse gli uomini si guardavano attorno: guardavano la pompa, inaugurata dieci anni prima, col glicine in fiore attorcigliato attorno al collo d'oca, guardavano il ceppo di legno sul quale eran stati scannati i polli a centinaia, guardavano l'aratro a mano nel locale degli attrezzi, guardavano la culla appesa alla trave lì dentro.
Nelle case i bambini facevano ressa attorno alle madri. Cosa andiamo a fare, mamma? Dove andiamo?
Non sappiamo ancora, rispondevano le donne, andate fuori a giocare, ma non andate vicino al babbo, potrebbe picchiarvi se gli andate d'intorno. E le donne tornavano alle loro faccende, lanciando continue occhiate ansiose agli uomini accoccolati nella polvere, preoccupati e intenti e pensierosi.
E arrivarono le trattrici. Strariparono dalle strade, invasero i campi, penetrarono dappertutto, strisciando come dinosauri dotati dell’incredibile forza degli insetti. Trattrici Diesel, frementi anche da ferme, tonanti in partenza, rombanti in azione. Mostri dal grifo appuntito che procedevano in linea retta sui loro cingoli entro nuvole di polvere, grufolando inesorabili, superando palizzate, cortili, avvallamenti, squarciando la terra, insinuandosi sotto gli atrii delle case coloniche, dissodando le aie, scalando ripe, abbattendo cinte, ignorando ogni ostacolo.
Sul suo sedile di ferro il conducente non aveva aspetto umano. Inguantato, occhialuto, mascherati il naso e la bocca contro la polvere, era parte integrante del mostro, era un fantoccio meccanico. Lo strepitio dei cilindri echeggiava su tutta la contrada, divenne un elemento come l’aria o la terra, e l’aria e la terra e lo strepitio sussultavano all’unisono sotto le identiche vibrazioni. Il conducente non poteva impedire al mostro di avanzare e retrocedere in linea retta per la campagna e di travolgere nella sua marcia dozzine di fattorie. Azionando leve e comandi si sarebbe potuto deviarlo, ma il conducente non poteva perché un altro mostro, il mostro che aveva costruito la trattrice, che l’aveva inviato sul posto s’era immesso nelle mani, nel cervello, nei muscoli del conducente, lo teneva imbrigliato e imbavagliato… imbrigliata la mente, imbavagliata la bocca, imbrigliate le sue facoltà di percezione, soffocata ogni sua voce di protesta. Non poteva vedere la campagna così com’era, né assaporare l’odore genuino della terra, né calpestarne le zolle, né sentirne il calore e la forza. Sedeva su uno sgabello di ferro e premeva pedali di ferro. Non poteva apprezzare né comprimere, o maledire o incoraggiare il proprio potere nei confronti della terra e di conseguenza era incapace di provare gioia o tormento, furore o sollievo. Non conosceva la terra, non era sua, non aveva fede in lei, non la supplicava. Se un granello di seme non germinava, egli non se ne dava pensiero. Se i teneri sprocchi appassivano nella siccità o affogavano sotto la pioggia, egli rimaneva indifferente, come la trattrice.
Non amava la terra, non più di quanto l’amasse la banca; ma non amava nemmeno la trattrice. Si contentava di ammirarne le superfici lucenti, la potenza, il rombo dei suoi cilindri detonanti. A rimorchio rotavano i lucidi dischi che vivisezionavano la terra: non più col faticoso lavoro dell’aratro, ma con la fredda opera d’un chirurgo la terra smossa s’ammucchiava da un lato mentre il secondo ordine di dischi la incideva e l’ammucchiava dall’altro; rilucevano le lame taglienti per il costante lustramento della terra. E dietro ai dischi gli erpici rastrellavano le zolle con denti di ferro. E dietro agli erpici le lunghe seminatrici – dodici ferrei membri eretti – violentavano la terra, stuprando meccanicamente, sputando il seme. Il conducente sul suo sgabello di ferro s’inorgogliva dell’impeccabile dirittura dei solchi che non tracciava lui, della trattrice che non era sua e ch’egli non amava, della potenza di cui si sapeva schiavo. E s’arrivava alla maturazione e alla mietitura senza che nessun essere umano avesse sbriciolato con le mani le tiepide zolle o setacciato la terra tra le dita, senza che nessuno avesse toccato il seme o ne avesse spiato con ansia la crescita. Gli uomini mangiavano ciò che essi non avevano coltivato, più nessun vincolo li legava al proprio cibo. La terra s’apriva sotto il ferro e sotto il ferro gradatamente inaridiva: nessuno c’era più ad amarla o a odiarla, nessuno più la supplicava o malediva.
A mezzodì il conducente fermava la trattrice talora nei pressi d'una cascina e apriva il pacco della colazione: sandwich ravvolti in carta oleata, pane bianco, carne in scatola, sottaceti, formaggini, una fetta di torta marchiata come il pezzo di ricambio d'una macchina. Mangiava senza gustare il cibo. E i mezzadri che non si decidevano a far fagotto venivano fuori a guardarlo mentre si levava gli occhiali e la maschera che lasciavano impronte curiose attorno ai suoi occhi e al naso e alla bocca. Il tubo di scappamento della trattrice continuava a spetezzare, perché il prezzo della benzina era così basso che risultava più economico lasciare acceso il motore, anziché spegnerlo e poi doverlo scaldare di nuovo per riavviarlo. La curiosità sospingeva soprattutto i bambini, coperti di stracci, col pezzo di polenta in mano.
Osservavano con dilatati occhi famelici il graduale apparire, fuor dalla carta oliata, dalla stagnola e dalle scatole di latta, dei prelibati cibi che costituivano la refezione del fantoccio meccanico convertitosi in uomo di carne e d'ossa. Non gli rivolgevano la parola. Guardavano la sua mano portare il cibo alla bocca. Non lo osservavano masticare; i loro occhi seguivano la mano che teneva il sandwich. Dopo un poco il mezzadro s'avvicinava anche lui, e s'accoccolava nell'ombra gettata dalla trattrice.
"To', sei il figlio di Joe Davis, vero?" "Sì," annuiva il conducente.
"E com'è che ti sei messo a fare questo lavoro, a danno dei tuoi?"
"Tre dollari al giorno. Non ne potevo più, sgobbare tutto il giorno per un tozzo di pane. Ho moglie e bambini e si deve pur mangiare. Tre dollari al giorno, e tutti i giorni... "
"Già, ma pei tuoi tre dollari al giorno quindici o venti famiglie non hanno neppure il pane. Un centinaio di persone sul lastrico, vagabonde, pei tuoi tre dollari al giorno. Ti pare giusto?"
"Come posso pensare agli altri! Io penso ai bambini miei. Tre dollari al giorno, tutti i giorni. I tempi cambiano, caro, voi non ve n'accorgete? La terra non rende più al giorno d'oggi, a meno che se n'abbia duemila, cinquemila, diecimila acri, e la trattrice. Ai pesci piccoli come noi non rende più. Non vi dà retta nessuno, oggi, se non siete un industriale d'automobili o la società telefonica. Eh, oggi è così, non c'è niente da fare. Provate anche voi a fare tre dollari al giorno, in qualche altro posto. È l'unica."
"È proprio buffo," rifletteva il mezzadro. "Se uno possiede un pezzettino di terra, egli è tutt'uno con la sua terra, ne è parte integrante. Se la terra che possiede può girarsela tutta e toccarla e causargli preoccupazioni se il tempo si mette al brutto e farlo felice quando arriva la pioggia, pure egli è tutt'uno con la sua terra e insomma si sente un signore per il fatto che quella terra è sua. E anche se l'annata non è buona, si sente un signore lo stesso. È così."
"Ma prendete ora," proseguiva il mezzadro, "uno che abbia una proprietà che non vede neanche, o perché non riesce a trovare il tempo di andarla a vedere o perché non può andarci a risiedere, ecco che allora quell'uomo è schiavo della sua proprietà. Non può fare né pensare quello che vorrebbe. La proprietà è il vero padrone, è più forte dell'uomo. E lui si sente un poveraccio, non un signore. Solo i suoi possedimenti sono importanti mentre lui ne è solo lo schiavo. Non è vero anche questo?"
Il conducente scartocciava i formaggini, buttava via la stagnola e continuava a mangiucchiare. "Son cambiati i tempi, non lo vedete? A ragionar così, i marmocchi restano a pancia vuota. Fatevi i vostri tre dollari al giorno, e pensate a sfamare i bambini vostri. Quelli degli altri non vi riguardano. Continuate pure a ragionare così e vedrete che non li farete mai tre dollari al giorno. Non troverete nessuno che ve li darà, fintanto che continuerete a preoccuparvi di tutto fuorché di quei tre dollari al giorno."
"Un centinaio di creature sul lastrico pei tuoi tre dollari al giorno. Ma mi dici dove s'ha da andare?"
"Ora che mi viene in mente," diceva il conducente, "sbrigatevi a sgombrare, sapete. Oggi stesso comincio a passarvi sull'aia."
"Il pozzo me l'hai già distrutto stamattina."
"Eh, lo so; dovevo tener la linea retta. E per la stessa ragione oggi devo passarvi sull'aia. Bisogna andare diritti. Oh, sentite, visto che conoscete Joe Davis, il mio vecchio, ho l'ordine, se ho da fare con una famiglia che non vuol sgombrare, ho l'ordine di non aver riguardi nemmeno per la casa, v' avverto. Son baracche di legno che basta toccarle, con la trattrice, per mandarle all'aria. Ci danno perfino un premio, in questi casi: due dollari di supplemento. Dei miei bambini, il più piccolo non ha ancora mai posseduto un paio di scarpe."
"La casa? Ma l'ho fabbricata io con le mie mani. lo l'ho costruita, usando dei vecchi chiodi per fissare le tavole, legando i travetti alle longherine con del fil di ferro da imballaggio. E mia. Provati a toccarla... Sto dietro alle finestre col fucile. Fa' tanto di avvicinarti e t ammazzo come un cane."
"Ma non son io, io non posso far niente, io perdo il posto se non eseguo gli ordini. Del resto, cosa credete di risolvere ammazzando me? Vi impiccheranno, certo, ma prima ancora d'impiccarvi ne manderanno un altro qui, con la trattrice, a buttarvi giù la casa. Come vedete, è inutile ammazzare me."
"Vedo," mormorava il mezzadro. "Ma questi ordini chi te li dà? Vuol dire che andrò a scovare lui. E lui che ammazzo."
"Non volete proprio capire: anche lui riceve degli ordini dalla banca. La banca gli dice: Sbatti fuori quella gente o ci rimetti il posto."
"Ma ci sarà pure un presidente, una direzione; io prendo il fucile e vado alla banca a fare una carneficina."
Diceva il conducente: "Anche la banca, da quello che so io, riceve ordini, dall'Est. Gli ordini dicono: O ci mostrate degli utili, o vi mettiamo in liquidazione."
"Da chi si deve andare allora? Ci sarà pure un responsabile da far fuori. Io non ho nessuna intenzione di crepare di fame senza ammazzare chi mi assassina."
"Non so cosa dirvi. Forse non esiste un responsabile da poter far fuori. Forse non ci sono neppure degli uomini a capo della faccenda. Probabile che, come dite voi, responsabile di tutto è la proprietà. Comunque, io v'ho detto i miei ordini."
"Devo pensarci," diceva il mezzadro, "tutti noi dobbiamo pensarci. Ci dev'essere un modo per risolvere questa faccenda! Non è come il fulmine, come il terremoto; è un sistema che l'ha fatto qualcuno, degli uomini come me e te, e dunque si può trovare il modo di correggerlo..." Il conducente faceva rombare il motore e partiva lasciando l'uomo accoccolato al sole. I cingoli si snodavano e scorrevano, gli erpici raschiavano il terreno e gli spunzoni della seminatrice slittavano per terra. La trattrice procedeva per l'aia coi dischi taglienti e la terra dura, battuta, si trasformava in terreno da semina. Avanti e indietro marciava la trattrice finché l'aia era ridotta a una striscia di tre metri. Di nuovo indietro e lo sperone di ferro urtava contro lo spigolo della baracca e la parete crollava e tutta quanta la baracca, divelta dalle fondamenta, rovinava al suolo, disintegrata. E il conducente portava gli occhiali e la maschera che gli proteggeva il naso e la bocca. La trattrice procedeva oltre in linea retta e l'aria e la terra vibravano all'unisono col suo ruggito. Il mezzadro, col fucile impugnato, la moglie al fianco e i bambini silenziosi dietro, osservavano immobili l'opera della trattrice.
11/08/2012, 7:55
2.1. L’inverno della preparazione.
“Nell’ottobre del 1922 - racconta Gianni Bosio - Vasco Grazioli portava ad Acquanegra il primo trattore che era poi il secondo della provincia di Mantova ... La prima volta che portò il trattore sui campi c’era molta gente a vedere se voltava bene la terra. Grazioli era lì a spiegare che questo non dipendeva dal trattore, ma dal piò, cioè dall’aratro. La gente non era molto convinta e allora tirava fuori una nuova obiezione, che cioè dove passava il trattore l’erba rimaneva pesta e le stradine e le cavedagne rovinate. Si trattava di obiezioni credute, tanto che si trascinarono per vent’anni, ma anche volute, volute dai contadini che preferivano rimandare una decisione che era troppo grossa o troppo gravosa” . Ma a conti fatti si accorsero presto che, bene o male, l’aratura per mezzo del trattore richiedeva un quarto del tempo di lavoro occorrente con i buoi, che pure costavano, a mantenerli.
Cominciava l’avventura della meccanizzazione, che oltre a segnare la scomparsa degli spettacolari attacchi di quattro, sei o otto bestie - e dell’umana pena che richiedevano ai bifolchi conduttori - avrebbe propiziato una più vasta solitudine dei campi durante i mesi invernali.
Angelo Majoli, fattore nel Mantovano e autore nel secolo scorso di un manoscritto di “Istruzioni ed Avertimenti per un Fattore di Campagna” , ammoniva a non lasciar passare i mesi invernali senza provvedere al rinnovo delle piantagioni arboree (“fare bucche e banche pei piantamenti di qualunque specie”) o allo scalvo di ceppaie e capitozze, possibilmente “in tempo che la Luna sia buona tanto per aiutare le piante, quanto per conservare il legnamme” da fuoco e da opera, sempre utile per le innumerevoli occorrenze aziendali. Se la stagione si presentava favorevole si doveva far arare il terreno per la seconda volta, ossia “rettaiare”, e portare il letame nei campi “a ciò che gli Buoi, ed i Bovari non perdono tempo, ma che gli Buoi siano sempre in occupazione, e fuori della stalla”; il letame doveva essere poi disteso a mano “con raschi” sui prati e sulle terre destinate al formentone. Bisognava pulire i condotti d’acqua e metter mano al rinnovo delle viti. Un fervore di opere, una vivace e rumorosa umanità riempivano gli spazi rurali, solo che le giornate non fossero del tutto inclementi.
Scomparsi ai nostri giorni, per la maggior parte, piantagioni e vigneti, la campagna invernale si offre per intero alle macchine maestose (e minacciose) fotografate da Morandi, che paiono dominare (e domare) una campagna uniforme e nuda, appiattita dalle mutate sistemazioni idraulico-agrarie che tendono ad allungarsi a perdita d’occhio, per togliere impacci alla libera corsa dei motori, rigate da solchi tutti uguali. La solitudine dell’operatore attuale sembra meno sopportabile, più triste durante questa stagione, quando uomini e animali e piante disertano i campi aperti, il freddo è stringente, la luce attenuata.
Forse per questo la tecnologia si è fatta più attenta a confortare il tempo di lavoro sulle macchine prevalentemente impiegate nelle lavorazioni invernali. In ispecie i grandi trattori cabinati, modellati da astuti designer, sui quali l’operatore sta come un cavaliere catafratto, isolato dall’esterno, riscaldato e supportato dalla strumentazione informatica, capace di assicurare uniformità alle prestazioni, anche quando l’attenzione dell’uomo declina.
Il lavoro fondamentale, quello di aratura, viene anticipato per quanto possibile già in autunno, per metter mano alla terra quando “sia in buono statto”, come diceva il Maioli, ovvero quando si trova in tempera, secondo i vecchi agronomi, con il giusto grado di umidità. Tuttavia l’inverno rimane la stagione dei lavori più pesanti, mirati alla preparazione del terreno che dovrà ricevere il seme e accogliere al meglio le piante. Via via meno frequente è lo spargimento del letame, al di fuori delle non molte aziende agro-zootecniche. Nei casi migliori si è passati ai liquami di varia estrazione, che però si smaltiscono in ogni tempo e in ogni luogo possibile, per mezzo di grosse botti malodoranti. Nel che gli esperti scorgono una causa del generale decadimento strutturale dei suoli, meno dotati di sostanze umifere e perciò meno soffici, più tenaci e resistenti alle lavorazioni. Condizione dalla quale deriverebbe la tendenziale crescita di potenza, di volume, di costi della macchina e fattore non ultimo, in una spirale presto incontrollabile di cause-effetti, di allargamento della presenza dei contoterzisti in questo settore strategico della produzione agricola.
Per certi aspetti la campagna invernale è il dominio degli operai terzisti, soldati di ventura estranei alle aziende per cui lavorano, quando non estranei alle campagne stesse, che ai loro occhi sono come la fabbrica per l’operaio, il luogo di lavoro. Separato dal luogo della vita domestica, come prima non era mai accaduto nell’ambiente rurale.
Eugenio Camerlenghi
11/08/2012, 23:26
L’estate delle fatiche.
Quando l’estate esplode incombe l’affanno delle irrigazioni. La selezione genetica ha spinto le varietà coltivate verso livelli di produttività prima sconosciuti, caricando tuttavia sugli agricoltori le apprensioni e i maggiori costi derivanti da organismi delicati e fragili. Le cui esigenze alimentari devono essere attentamente rispettate, a cominciare appunto dai bisogni idrici.
In Lombardia la pratica di irrigare i campi è antica, specialmente localizzata nella pianura centrale e occidentale, dove aveva costituito premessa indispensabile alla coltura dei prati stabili e alla straordinaria valorizzazione di suoli naturalmente poveri, che poteva essere realizzata con il prato, piuttosto che con l’aratro. Si trattava di sistemi di distribuzione per scorrimento, o a gravità, articolati in reti complesse di derivazione, disposte a quote opportunamente elevate, che andavano a servire campi dotati di sapienti pendenze, tenuti ben livellati con cura metodica. Frutto di investimenti di capitale e di lavoro prolungati nel tempo e dei privilegi ecclesiastici e nobiliari, che avevano consentito il consolidamento degli indispensabili diritti d’acqua.
Corrisponde invece all’epoca della meccanizzazione la diffusione su quasi tutto il territorio, comprese le aree declive, specie collinari, delle irrigazioni cosiddette a pioggia, o per aspersione, quasi sempre azionate mediante sollevamento delle acque sotterranee o correnti nei fossati, con mezzi aziendali. E’ una sorta di rivoluzione idro-meccanica che viene a rovesciare, sostanzialmente, i vecchi rapporti tra aree irrigue e aree asciutte, tra proprietari e fittavoli, tra diverse categorie di prestazioni di lavoro. Si osserva sempre più frequente, nella realtà attuale, l’abbandono dei sistemi a scorrimento e la loro sostituzione con le aspersioni, per una serie di ragioni collegate alle disponibilità di acqua, alla tempestività degli interventi, ai costi di gestione.
Scompare l’antica figura dell’acquaiolo, camparo o irrigatore, addetto alla manovra delle paratoie e alla sorveglianza dei deflussi delle acque nelle canalette adacquatrici e sui campi. Con l’avvento della nuova combinazione trattrice-pompa-tubazioni mobili-irrigatori si manifesta, almeno nei primi decenni del secondo dopoguerra, un sovrappiù di tempo-lavoro, a carico delle famiglie coltivatrici e dei salariati, che nella calura estiva si muovevano da un appezzamento all’altro, carichi di tubi e di “getti”, di giorno e di notte. Fin tanto che i costi delle reti fisse sotterranee o dei grandi rocchettoni semoventi non sono diventati accessibili alle imprese singole o ai contoterzisti, in modo da tagliare anche questa domanda di lavoro; peraltro non dappertutto e senza escludere completamente la partecipazione dell’uomo, negli indispensabili momenti di servizio alla macchina. Che le figure umane fissate da Giuseppe Morandi restituiscono in atteggiamenti da flagellanti, marcate dalla plasticità dei corpi nudi e dal peso degli oggetti meccanici che paiono opprimerli.
Con l’estate arrivano i primi raccolti, di frumento e orzo, ma quasi confinati oramai al rango di episodi marginali; per effetto dei prezzi bassi dei cereali e della meccanizzazione quasi integrale raggiunta in questo settore. Fanno adesso la loro entrata trionfale nelle aziende le macchine più grandi fra tutte, quelle a cui si affida l’apoteosi dell’immaginario agricolo contemporaneo: le mietitrebbiatrici, nate nelle grandi pianure e da noi patrimonio pressoché esclusivo dei terzisti. Il conduttore di questi monumentali parallelepipedi montati su ruote esegue la mietitura in solitudine e riversa le granelle già trebbiate e ripulite nei rimorchi in attesa, ai margini del campo. L’agricoltore li va a controllare e li ritira una volta colmi, per portarli ai magazzini, senza tralasciare del tutto i lavori richiesti dalle altre colture in corso. Un uomo e mezzo possono liquidare in un sol giorno l’opera che un tempo obbligava alla mobilitazione di cento, per il solo taglio e accumulo del cereale in covoni; cui doveva seguire il trasporto nelle corti e alla fine la trebbiatura, che si ripeteva di cascina in cascina all’arrivo della macchina fissa e dei suoi serventi. Con il contorno di una festa paesana, rito di ringraziamento e di propiziazione, bisognoso del concorso dei vicini e di quanta più gente possibile, per accelerare i tempi e mettere prima al sicuro il faticato prodotto.
Quando Angelo Majoli esercitava la sua professione di fattore erano invece i cavalli a battere sull’aia i covoni per svestire la granella di frumento, che poi gli uomini dovevano separare dalla paglia con le forche, stando attenti “che galeggiano bene per aria la paglia, che così facendo il grano sortirà benissimo dalla paglia medesima”. Il momento andava gestito con cura “perché in forza del caldo e della fatica (la gente) è manco ragionevole, quindi è bene quello che conduce l’aja comanda la sua gente con buona maniera”; in ispecie era meglio “accarezzare gli Cavalari col tratarli bene acciò si prendano da se stessi una buona solecitudine ... e dargli del buon vino”, “perché non ci vol guerra in questi giorni”. Erano questi cavallari dei prestatori d’opera esterni, noleggiatori o contoterzisti veri e propri, chiamati nelle varie aziende con le loro bestie a svolgere un lavoro che richiedeva particolare abilità e senso di responsabilità.
Del riguardo loro dovuto rimaneva traccia, fino a poco tempo fa, nella consuetudine di offrire il pranzo o la merenda al contoterzista e ai suoi operai. Un’altra occasione di socializzazione oramai in via di estinzione, per la fretta imposta dai tempi stretti stagionali non meno che per il costo elevato di gestione della macchina, che mal sopporta i tempi morti. O spesso perché in cascina non c’è più nessuno, nemmeno a far da mangiare per sé.
Le raccomandazioni dell’antico fattore rimandano a quella che è stata indicata come una storica funzione del padronato agrario, almeno fino alla metà del Novecento: “la società ha affidato loro, oltre alla produzione agricola, il compito del controllo sociale dei contadini, di cui la chiave del portone (della cascina) è soltanto un aspetto espressivo. E’ un controllo che si esplica giudicando senz’appello ... non solo il comportamento lavorativo dei dipendenti, ma anche il loro comportamento personale nella
vita quotidiana in cascina” ha scritto Renato Rozzi . Non è in questa sede che si possono individuare i nuovi strumenti del controllo sociale, ma non v’ha dubbio che quanto meno nella sfera aziendale la macchina assolve a questa funzione in maniera anche più esauriente e totalitaria di quel che padrone e fattore sapessero fare un tempo.
Nelle mutate condizioni non paiono tuttavia scomparsi gli impulsi alla trasgressione e alle feste: la gente di campagna non ha perso la voglia di celebrare l’estate a proprio modo, sia pure solo per cercar sollievo alle fatiche delle lunghe giornate di afa e di affanno - dentro o fuori le aziende agricole - riappropriandosi delle poche ore di frescura concesse dalle serate. Le feste di partito, di frazione, di quartiere che pullulano un po’ ovunque hanno preso il posto delle celebrazioni campestri di mezz’estate e ne recuperano la funzione di compensazione, rispetto ai risvolti meno lieti dell’esistenza.