Oggi Norman Borlaug avrebbe compiuto cento anni, ci ha lasciato il 12 settembre 2009, agronomo e ambientalista ideatore della Rivoluzione Verde, per il suo impegno nella lotta contro la fame nel mondo, ottenne il riconoscimento del Premio Nobel per la pace nel 1970.
Nato il 25 marzo del 1914 a Cresco piccola comunità dell' Iowa da una famiglia di agricoltori si laureo in Agraria per poi specializzarsi in Patologia vegetale all’ università del Minnesota.
Prima della fine della seconda guerra mondiale divenne responsabile del centro di ricerche delle malattie genetiche con sede in Messico. Nei suoi studi, incrocio cereali di varietà diverse costituendo colture di frumento di piccola taglia , resistenti all’ allattamento e al clima mesoamericano.. Nei paesi dove operò , Messico e poi India, Pakistan, Egitto, in molti paesi asiatici Borlaug sperimentò i suoi metodi ottenendo grani molto più produttivi e resistenti alle malattie. Solo in Messico dopo pochi anni dal suo arrivo l’ autosufficienza alimentare fu un dato di fatto.
L’ Associazione AgronomiperlaTerrA alle cui idee si ispira vuole ricordarlo con l'intervista rilasciata al prof. Antonio Saltini durante il suo viaggio in Italia (2004).Intervista al premio Nobel padre della "rivoluzione verde" sul futuro della ricerca genetica, chiamata a soddisfare i bisogni degli abitanti del globo che soffrono la fame
Sulle soglie ormai dei novant’anni, Norman Borlaug, padre dei frumenti che hanno permesso la “rivoluzione verde”, per quell’impresa insignito del premio Nobel, è il decano dell’agricoltura mondiale.
Nell’intero corso della storia umana nessun uomo poté mai vantare, come può vantare lui, di avere creato piante che consentono la vita di due miliardi di esseri umani. Nonostante l’età, è ancora al centro dell’agone scientifico internazionale, e non manca mai di esprimere la preoccupazione, che lo agita e lo sospinge, per il pane e il riso necessari ai nove miliardi di abitanti che la Terra dovrà ospitare, per consenso unanime dei demografi, tra trent’anni.
Quella preoccupazione lo ha condotto anche a Bologna, dove alcuni organismi scientifici hanno convocato, presso la Facoltà di Agraria, un’importante assise sulle prospettive della ricerca genetica. È durante una pausa dei lavori, grazie alla premura di Roberto Tuberosa, responsabile, per conto dell’Università di Bologna, del convegno, che ho potuto incontrarlo. Seduti al banco di un’aula deserta, Norman Borlaug non mi ha concesso una semplice intervista, ma si è immerso in una appassionante conversazione sulle prospettive degli equilibri alimentari del pianeta.
Non di solo pane
Professor Borlaug, è passato mezzo secolo da quando lei congegnò i frumenti che avrebbero permesso la “rivoluzione verde”. Da allora la popolazione del globo è raddoppiata, la produzione di cereali è triplicata, ma triplicarla non è stato sufficiente: un miliardo di uomini soffre ancora la fame. Ritiene che fossero migliori allora, o che siano migliori adesso le condizioni per accrescere la produttività della terra?
«Non v’è dubbio che astrattamente le condizioni siano migliori oggi: le nostre conoscenze si sono enormemente accresciute, e con quelle conoscenze non sarebbe difficile accrescere le produzioni. Ma gli ostacoli all’impiego delle conoscenze sono immani: nei Paesi che mancano di cibo, l’America latina, l’Asia meridionale, l’Africa, diffondere cognizioni agronomiche è impossibile se parallelamente non si realizzino strade, scuole e ospedali. Ed è inutile produrre alimenti se il bracciante asiatico lavora solo due giorni alla settimana e non ha il denaro necessario a comprare il riso. Cina, India e Pakistan hanno realizzato aumenti di produzione prodigiosi, ma in quei Paesi si soffre ancora la fame, si muore di fame, siccome il cibo non è equamente distribuito. Esaminiamo il caso della Cina, oggi il primo produttore al mondo di frumento, il secondo di mais, che pure ha zone dove la fame è endemica: i responsabili del Paese spiegano che in quelle zone tutto il cibo necessario è difficile trasportarlo per mancanza di sistemi funzionali di comunicazione».
Non ritiene si debba riconoscere che negli anni Cinquanta sul pianeta v’erano milioni di ettari di foreste da convertire in arativi, fiumi immensi da sbarrare, lo stato dei terreni era eccellente, il consumo di fertilizzanti era irrisorio, mentre oggi non vogliamo sacrificare altre foreste, non ci sono fiumi per nuove immani dighe, tutti denunciano i danni dell’erosione e quelli della salinizzazione sulla fertilità, il consumo di fertilizzanti è già elevato, e voci autorevoli temono consumi ancora maggiori. Non sono tutte condizioni negative, che rendono più ardui progressi ulteriori?
«Credo che le carenze idriche possano costituire un impedimento all’esercizio dell’agricoltura, nei prossimi trent’anni in alcune aree del pianeta, ma che il problema non sarà generale. L’erosione è un processo sempre operante, certamente grave nelle aree declivi, molto meno in quelle pianeggianti e la salinizzazione è stata la conseguenza di impianti di irrigazione che non prevedevano la necessità di dilavare il contenuto salino delle acque impiegate, ma oggi gli impianti si progettano con il complemento di reti drenanti. Certo, dove un governo vuole realizzare una rete drenante per vitare il pericolo su aree di antica irrigazione, gli agricoltori si oppongono all’arresto dell’erogazione necessario all’impianto della nuova rete: ma sappiamo come procedere.
Il degrado dei suoli non è problema nuovo: quando iniziammo il nostro lavoro in Messico, a metà del secolo scorso, fummo costretti a renderci conto che operavamo su terreni impoveriti da millenni di coltivazione intensiva. Prima di Cortez quelle terre producevano mais tutti gli anni, e il mais impoverisce la terra. Per favorire la crescita delle piante il suolo non deve presentare anomalie chimiche e dev’essere dotato di tutte le sostanze necessarie. Fertilizzare un terreno è impresa complessa.
Ricordiamo la storia del terreni acidi del Brasile, tanto acidi da essere considerati sterili: si pensò di correggere l’acidità con somministrazioni di calce, le piante crebbero, ma la calce aveva neutralizzato l’acidità dei primi venti centimetri, sotto il suolo era ancora acido e in condizioni di acidità diventa solubile l’alluminio, che risultava letale se le radici penetravano in profondità.
Per coltivare quei terreni erano necessarie piante tolleranti l’alluminio, che solo la genetica può congegnare».
Non di sola genetica
La genetica è indispensabile, ma non è sufficiente, da sola, al progresso delle produzioni, deduco dalle parole del mio interlocutore.“Non lo è mai stata e lo sarà sempre meno ― conferma il professor Borlaug ―. La genetica stabilisce il potenziale delle colture, la quantità di carboidrati che le piante sono in grado di produrre nelle migliori condizioni ambientali, ma quella condizioni debbono essere assicurate da interventi agronomici. In India i primi frumenti selezionati elevavano le rese da una a due tonnellate per ettaro nei campi di tutti i coltivatori, di quattro o cinque in quelli dei più capaci, che avevano compreso le esigenze delle nuove piante. Ecco perché ripeto che non basta fare nuove sementi, ma che occorrono, insieme, strade e scuole: senza strade non si possono distribuire agli agricoltori i fertilizzanti necessari a ottenere produzioni elevate, senza scuole è difficile che quei coltivatori imparino come combinare le sementi con l’impiego dell’acqua e dei fertilizzanti.”
La genetica resta, comunque, arguisco, il fattore capitale del progresso futuro.“Senza dubbio ― conferma il mio interlocutore ― : sussiste l’imperativo categorico di produrre di più, e solo la genetica può mettere nelle nostre mani piante più produttive. E genetica significa, oggi, creazione di genotipi estrapolando geni favorevoli dalle fonti possibili e componendoli nelle combinazioni più favorevoli. Produrre di più e più razionalmente: pensiamo ai benefici dell’introduzione dei geni del Bacillus Thuringiensis nel genoma delle piante più esposte all’attacco degli insetti, quei risultati che si riassumono nella drastica riduzione delle irrorazioni di antiparassitari. Pensiamo ai vantaggi delle piante resistenti agli erbicidi: il sessanta per cento del cotone è coltivato, nel mondo, in aziende familiari, dove tutta la famiglia vive piegata penosamente sulla zappa. Le erbe infestanti nei climi equatoriali hanno un vigore prodigioso! Con un gene per la resistenza agli erbicidi si risparmia a milioni di uomini il più penoso dei lavori!”
Come in Italia è stato possibile chiudere la tragica epopea delle mondine nelle risaie di Vercelli e Pavia, annoto. Ma, a combinare genetica e agronomia lei ritiene possibile, soggiungo, risolvere i problemi alimentari di tutte le regioni del mondo dove si soffre la fame, anche dell’Africa, il continente sul cui futuro non mancano le prognosi disperate?
“Ricerche precise, finanziate, da una fondazione giapponese, hanno dimostrato quale immenso incremento sia possibile imprimere alle produzioni africane fondamentali, mais sorgo e manioca. Ma prima di tutto gli africani hanno bisogno, ripeto, di strade e scuole, strade per comunicare, per conoscersi, per dissolvere la paura reciproca che alimenta i conflitti tribali. Certo, le conseguenze positive non si vedranno in un anno, ma dobbiamo contare che non mancheranno.”
E fino a quando potrà la genetica accrescere le produzioni, chiedo al mio interlocutore? Agronomi non privi di prestigio sostengono che le grandi specie agrarie sarebbero prossime, ormai, ai propri limiti biologici, oltre i quali non si potrebbe aumentare ancora.“Non v’è dubbio che limiti biologici sussistano ― riconosce Norman Boralug ― ma non possiamo dire di averli raggiunti. Certo, per superare i limiti già raggiunti dobbiamo usare i mezzi più raffinati della biologia molecolare. Senza sapere fino a dove ci sarà consentito progredire, ma fino a quando la crescita della popolazione non si arresti, dobbiamo continuare lo sforzo per progredire.”
Contro la genetica
La genetica, quindi, strumento indispensabile per nutrire l’umanità del futuro, ma contro la genetica si agitano forze prepotenti, soprattutto in Europa. Come spiega il fenomeno, e quali pensa possano esserne le conseguenze?“Quando, nel 1965, l’India dovette confrontarsi con la carestia più grave del passato recente, molte voci, nel gabinetto del primo ministro, erano contrarie all’introduzione delle sementi nuove sperimentate in Messico e in alcuni altri paesi. Indira Gandhi decise di importarle, e la quantità necessaria fu raccolta col contributo di paesi diversi. Per illustri luminari americani lo sforzo era inutile: la fame dell’India non si poteva sconfiggere. La carestia fu superata: tra la popolazione dell’India non sorse alcuna obiezione contro l‘impiego di quelle sementi. La gente sapeva cosa era la fame. In Europa, ma anche negli Stati Uniti, la resistenza contro le nuove creature della genetica è virulenta, ma è comprensibile: nessuno ricorda cosa sia la fame. C’è chi mi rimprovera di non avere risolto i problemi alimentari dell’India. Risolvere i problemi alimentari dell’India! Io chiedo semplicemente: ma senza i frumenti della Rivoluzione verde cosa sarebbe stato dell’India? Non sanno rispondere. L’umanità si moltiplica, ogni anno ottanta milioni di bocche in più chiedono pane e riso, dobbiamo pensare ad alimentare una popolazione di nove miliardi. Per farlo l’arma a nostra disposizione è la scienza, la genetica con l’agronomia. Capisco le paure: di fronte al cambiamento è naturale chiedersi perché cambiare, anche gli uomini politici, potessero, non affronterebbero mai i cambiamenti. Ma la popolazione cresce, dobbiamo cambiare. Il cambiamento necessario consiste anche nella nuova genetica.”
Ma crede, insisto, che la politica saprà cambiare? Nel 1974 si celebrò a Roma la Conferenza mondiale sull’alimentazione, che proclamò la prossima eradicazione della fame:
Cosa ha fatto la politica mondiale da allora?
“Partecipai alla conferenza ―sorride il premio Nobel Borlaug ― e ricordo la riunione per la stesura del documento nella quale Henry Kissinger proclamò che entro cinque anni nessun bambino del pianeta sarebbe più andato a letto senza avere soddisfatto l’appetito. Una dichiarazione penosa: le dichiarazioni politiche, purtroppo, non alleviano la fame”
Qualche anno fa il New York Times pubblica: “Chi è più meritevole di ammirazione, secondo voi: Madre Teresa, Bill Gates o Norman Borlaug?”
Norman Borlaug l’agronomo che cambiò l’agricoltura.
- Allegati
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- Intervista del prof. Antonio Saltini a Norman Borlaug all'università di Bologna
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