eugenio
Sez. Orticoltura
Iscritto il: 09/08/2008, 9:24 Messaggi: 10192
|
IO PASSEREI A QUALCOSA DI MENO INQUIETANTE E PIU' RASSICURANTE X IL NS PALATO
LA SFOGLIATELLA di ANNAMARIA RUSSO E CIRO SABATINO Su questo enigmatico incipit si aprono duemila anni di misteri. Una storia inconfessata e inconfessabile. Riti pagani e ascetismo cristiano preparano il debutto in società della sfogliatella. Fragrante scrigno di castità prima, dolcissimo segreto delle spose di Gesù poi, la Regina della pasticceria napoletana compie oggi duemila anni.
Un tuffo nel passato, venti secoli da percorrere a ritroso, per rintracciare le radici del dolce partenopeo, il trisavolo della sfogliatella fa per la prima volta capolino nella cornice dell’antica Pessinunte, in Frigia. Nel magico scenario dell’attuale Siria i riti dedicati alla dea venerata col nome di Grande Madre si consumano ogni notte tra iniziazioni misteriche e sfrenati baccanali. Erotismo e violenza, Eros e Thanatos, accompagnano il culto di Cibele dalle colonie elleniche d’Asia alla Grecia, fino alla tenebrosa cripta di Piedigrotta nel cuore della Napoli pre-romana. Qui, tra le oscure volte della grotta, le caste sacerdotesse, avvolte in impalpabile candidi veli, ricreano l’atmosfera carica di suggestioni mistico‑sensuali che aveva coinvolto per secoli le popolazioni asiatiche ed elleniche.
Al centro del delubro di Pozzuoli ‑ che l’immaginario popolare ha per secoli considerato prodotto dell’arte magica di Virgilio ‑ troneggia un altare consacrato alla Grande Madre. Le vergini vestali si apprestano ad officiare il quotidiano rito per propiziare la fertilità. Sull’ara odorosa di incensi, tra cerchi di fuoco e unguenti misteriosi, un vassoio di dolci e speziati pani triangolari. La forma rimanda inequivocabilmente all’immagine della sfogliatella e allo stesso tempo della femminilità. La scelta degli ingredienti richiama la purezza. Una simbologia fatta di zuccheri e aromi offre alle ancelle lo spunto per celebrare il culto della castità. Nel corso di questi misteri, infatti, l’ammiccante panetto assume un insospettato ruolo di grande rilievo. Sospeso in ardito equilibrio tra religiosità primitiva ed erotismo viene innalzato dalle sacerdotesse della dea frigia come simbolo d’illibatezza. Nelle rarefatte atmosfere della grotta napoletana questa ostentata castità finisce per diventare il preludio a rituali orgiastici capaci di indurre la grande generatrice a dispensare fertilità ed abbondanza alla folla di donne che si raccoglie nel tempio. In questo contesto solo apparentemente contraddittorio, nel quale purezza e sensualità convivono come facce della medesima medaglia, l’allusione pudica della sfogliata è perfetta. Il pasticcino dalla forma triangolare, che richiama l’organo genitale femminile, rappresenta il dono più adeguato da offrire alla Grande Madre al culmine di una celebrazione religiosa che si trasforma, con il passare delle ore, in un ardito e magico festino.
Comincia qui la millenaria storia della sfogliata, costretta, nei secoli, a adombrare improbabili doppi sensi. Quando la cripta di Piedigrotta consacrata a Cibele diviene tempio di Priapo il mitico pasticcino, abbandonato ogni casto richiamo, ancora si impone nei banchetti che accompagnano le manifestazioni in onore del dio Pan.
Tito Petronio Arbitro nel Satyricon racconta che in una grotta presso Napoli, non lontano dalla tomba di Virgilio, esisteva un tempietto dedicato a Priapo di Lampasco, figlio di Bacco e Venere, dio della generazione e della fecondità, degli amori licenziosi e contro natura. All’interno della cripta i tre protagonisti del sagace poemetto, Encolpio, Ascylto e l’efebo Gitone, osannano alla gloria del loro idolo, coinvolti in una danza oscena con la sacerdotessa Quartilla e le sue ancelle che «nude alla luce di fiaccole erano use in quei tempi darsi a nefandi misteri».
Nelle rare cronache dei baccanali intitolati a Priapo non mancano, qui e là, riferimenti a un allusivo panetto triangolare. Ovviamente, durante quei riti orgiastici, al dolce speziato non può più essere affidato l’originario messaggio di purezza. Il fragrante triangolo è semplicemente il funzionale pretesto per celebrare il trionfo del più sfrenato erotismo.
La scure del Cristianesimo sull’ara sacrilega Dalla femminilità inviolata a quella sensuale e lasciva, sempre carica di una simbologia sacra, la sfogliata procede nel suo cammino tra le divinità preromane. Con l’avvento del Cristianesimo sul paganesimo epicureo che aveva caratterizzato le celebrazioni religiose nella Grotta di Pozzuoli cade un lungo severo silenzio. Ferventi seguaci dell’Apostolo Pietro radono al suolo l’ara sacrilega e nello stesso luogo edificano una cappella intitolata alla Vergine dell’Idra o del Serpente. Chiaro il riferimento al Demonio che si cela sotto le spoglie della serpe e chiaro anche il ruolo della Madonna. In quell’antro, per secoli scenario di attività orgiastiche care al Signore delle Tenebre, la Vergine Maria aveva il compito di fugare le presenze maligne che la diffusa credenza popolare continuava a ritenere si aggirassero nell’oscura grotta. Nel 1200 la cappella cristiana viene trasformata in tempio. Sfuma, così, nel rigore della cristianità, il ricordo delle sacerdotesse pagane e delle sensuali baccanti. Si tramanda, però, inspiegabilmente la tradizione della sfogliata.
Liberato da ogni richiamo erotico, restituito alla sua purezza ancestrale, il dolce diviene patrimonio esclusivo delle monache napoletane. Un percorso catartico tra i secoli del primo millennio per cancellare ogni memoria della sfrenata avventura erotico‑pagana e tornare emblema di un candore che non tollera alcuna concessione alla sensualità, ma che recupera dal passato solo la simbologia della fertilità. Non è un caso che già dal 1353 il tempietto di Piedigrotta ritorni a essere luogo di pellegrinaggio delle giovani spose e delle mogli infeconde. In quell’anno, infatti, la chiesa viene riedificata, ampliata e dedicata alla Vergine Maria per intercessione «di un monaco chiamato Benedetto, di un certo Romito, gran servo di Dio e di una monaca chiamata Maria Durazzo». Secondo quanto riportato da un anonimo articolista nella Gazzetta Napolitana del 1805 «ancora agli inizi del secolo scorso le spose delle nostre contrade si recavano a Piedigrotta a pregare la Santissima Vergine perché le proteggesse nel nuovo stato e tale rito si compiva alla prima uscita che facevano dalla casa dei mariti e cioè non appena iniziate al mistero coniugale della procreazione».
Dal medioevo fino a buona parte dell’Ottocento, la sfogliatella conserva il suo simbolismo casto nel segreto delle celle claustrali dei monasteri partenopei per giungere poi tra i forni dei laboratori di pasticceria.
Le remote origini l’hanno vista effigie di una singolare verginità: quella ostentata dalle vestali di uno dei culti misterici a più alta valenza erotica. Nel corso dell’ampia parentesi cristiana, continua a proporsi come insolita sintesi di sacro e profano. E sempre lungo il percorso che conduce alla sua completa laicizzazione, la sfogliata resta ostinatamente dolce al femminile.
Un cammino durante il quale il pasticcino si libera, passo dopo passo, di ogni memoria simbolica. Un’inspiegabile ma inesorabile determinazione a cancellare un passato millenario, intrigante e ricco di imprevedibili colpi di scena accompagna la sua storia moderna, fino ad oggi. Fino a un pomeriggio autunnale, piovoso e suggestivo, quando nella sala di una delle pasticcerie più antiche e prestigiose della città, un anziano cameriere, porgendo a due golosi clienti la milionesima fragrante delizia triangolare, si chiede scuotendo la testa: «Ma chi l’avrà mai inventata questa sfogliatella?…».
Il dolce segreto della Principessa L’anno è il 1609. La città è Napoli. L’atmosfera è quella di fine giugno in uno dei più noti e splendidi palazzi di Chiaia. Nella lussuosa residenza del principe di Cellammare, la routine mondana e sonnolenta dell’aristocrazia partenopea viene scossa violentemente da una inaspettata missiva. Il foglietto, vergato con eleganza su delicata carta d’Amalfi, porta l’intestazione di un prestigioso convento: il Croce di Lucca.
La firma è quella della madre priora. I toni sono pacati ma severi. Aurelia, Maria, ed Eleonora, tre delle sei figlie di Nicola Giudice, principe di Cellammare e duca di Giovinazzo, dopo quattro anni di inappuntabile noviziato, ricevono la prima, grave, nota di richiamo. Fughe di notizie, indiscrezioni, pettegolezzi relativi alla vita del monastero impensieriscono tanto suor Maria Bernarda Zufia, la priora, da indurla a intervenire, personalmente, con un documento ufficiale. Un invito alla discrezione per le tre sorelle, colpevoli di aver infranto la regola del silenzio che da sempre si conveniva dovesse circondare la vita claustrale. Quell’universo fatto di preghiera, di consuetudini e riti doveva restare inviolato dalla mondanità. Su Aurelia, Maria ed Eleonora, pesa un’accusa infamante: aver svelato uno dei segreti più antichi del monastero di Croce di Lucca. Niente di meno che la misteriosa ricetta della mitica sfogliatella.
Custodita per anni con estremo rigore, la lista degli ingredienti e delle fasi della preparazione del dolce sembra aver varcato definitivamente le mura claustrali per finire nelle cucine di altri ordini di religiose. Veramente troppo anche per le tre figlie del mecenate al quale il monastero deve, tra l’altro, le costosissime opere di ampliamento.
Il convento Croce di Lucca viene fondato nel 1537 da suor Cremona di Cremona e da Sebastiano Puccini, antenato dell’autore della Bohème, a pochi passi dalla chiesa di San Pietro a Maiella, dove oggi si sviluppa il complesso monumentale del Policlinico Vecchio. La struttura nasce in onore del Crocifisso che si venera a Lucca con il nome di Volto Santo. L’ordine della Carmelitane Scalze prende possesso del monastero e della chiesa annessa nel 1560. Quarant’anni dopo il principe di Cellamare decide di finanziare i lavori di rifacimento del complesso monastico per assicurare alle sue figliole, avviate alla vita claustrale, tutte le comodità che si convengono all’illustre lignaggio e, naturalmente, per far conoscere al mondo intero che solo per forza di spirito e non per risparmio di dote le sue figlie si erano fatte religiose».
La somma elargita è esorbitante: 120 mila ducati. Circa due miliardi attuali. Il cospicuo capitale viene utilizzato per rifare interamente la navata centrale della chiesa e per ampliare i dormitori e le celle delle religiose.
Guerra gastronomica tra i monasteri Negli anni che seguono la sua fondazione, il Croce di Lucca diventa il rifugio dorato di tutte le nobili giovinette napoletane con ambizioni mistiche. Le maggiori famiglie dell’aristocrazia locale fanno a gara per assicurare almeno una delle figlie alle cure delle Carmelitane. Tra le mura del monastero, infatti, le fanciulle vengono educate non solo alla preghiera, ma anche alle arti muliebri. Cucito, culinaria, galateo sono lezioni quotidiane che le suore anziane impartiscono alle novizie. Le future monache imparano i segreti delle loro maestre e partecipano attivamente alla vita del convento. L’abilità nel preparare leccornie è una dote indispensabile nel clima di vera e propria competizione che si è instaurato tra i vari monasteri napoletani. La posta in gioco è la palma della delizia dolce. Non a caso una delle voci in uscita più gravose nel bilancio mensile dei monasteri è quella relativa alle cose da zuccaro. Alle grate delle celle claustrali si affacciano spesso, oltre ai parenti, personaggi importanti, alti prelati e religiosi di ogni paese. È necessario riceverli convenientemente, offrire loro squisitezze e mantenere alto il prestigio dell’istituzione. Le casse risentono di queste uscite, ma le monache continuano ostinatamente ad impegnare forti cifre nell’acquisto di ingredienti per la manifattura di dolci. La cellerara e la speziara, monache addette alle cucine, nei giorni di piena attività precedenti le feste, si fanno addirittura aiutare da uomini di fatica, i vastasi, per “pistare zuccheri e aromi”. Le religiose si dedicano alla preparazione di cose da zuccaro non solo per tenere alto il buon nome del monastero, ma anche per arrotondare le entrate del convento scatenando, a maggior ragione, l’indignazione delle alte sfere ecclesiastiche.
Ogni ordine religioso si distingue per una specialità. L’autorevole monastero di Santa Chiara è famoso nella preparazione di marasche sciroppate, perette in barattoli, lasagne e «frittelle chiamate zeppole». Quello della Maddalena per le paste reali, quello dell’Egiziaca per i biscotti dei carcerati e quello di Regina Coeli per canditi asciutti. Le gustose bocca di dama sono invece una prelibatezza tipica del monastero della Trinità; le foglie di rose rosse candite di quello di Donnaromita; le fette di cotogna sciroppate di Santa Patrizia. Santa Caterina e San Girolamo si distinguono rispettivamente per la lavorazione di «tagliolini fini come capelli» e di lasagne. San Marcellino primeggia nella preparazione dei casatielli; Donnalbina nelle cacuzzate in barattolo e il monastero di Concezione della Spagnuola in ruschigli di cioccolata. Donnaregina, Sapienza e Santa Maria di Costantinopoli detengono invece l’esclusiva per la preparazione di torte di frutta, susamielli di farina e miele, lupini di zucchero e pan di Spagna. Il Croce di Lucca partecipa alla gara forte di una ricetta antica e misteriosa: quella della sfogliatella. Non sempre però i termini di questa tenzone sono leali. Pur di surclassare i monasteri rivali le religiose non disdegnano l’utilizzo dello spionaggio culinario. Tentativi più o meno subdoli di carpire ricette segrete o piccoli ma determinanti dettagli della complessa e delicata preparazione dei manicaretti, sono all’ordine del giorno. Si scatena così una vera e propria caccia alla spia che si conclude il più delle volte al cospetto di una ingenua chiacchierona.
In questo clima di inquisizione gastronomica per Aurelia, Maria, ed Eleonora Giudice il privilegio garantito dal padre di poter ricevere almeno dodici volte l’anno visite, finirà col ritorcersi contro. I fatti, secondo le scarne cronache dell’epoca, dovettero andare più o meno così. Una domenica d’inizio estate, in via Roma comincia a spandersi un profumo strano, dolcissimo. I napoletani escono dalle case per vedere… per capire. E guarda un po’… dentro la bottega del cavalier Pintauro fa bella mostra di sé una sfogliatella. Una sfogliatella. Lo scandalo è enorme. Il dolce sacro finito in mani profane. Il segreto di Croce di Lucca è svelato. La sfogliatella è stata profanata. Al monastero succede un finimondo. La superiora interroga tutte le suore che hanno accesso alle cucine e nel contempo rapporti con il mondo esterno. Non ci vuole molto a restringere la rosa dei sospetti. La delatrice non può che essere una delle tre sorelle Giudice. La madre superiora ritiene anche di sapere quale delle tre. Quella carina, un po’ svagata. Quella sorpresa una volta a colloquio con il garzone del cavaliere. Il nome delle principessine impone alla madre badessa di sedare lo scandalo. Le fanciulle rimarranno in convento ma a tutte e tre sarà interdetto l’ingresso alle cucine. Un affronto difficile da mandar giù per tutte. Ma un’umiliazione assolutamente intollerabile per Aurelia, la sorellina più giovane quella sulla quale si erano appuntati i sospetti più gravi della superiora. Un’umiliazione che la giovane non sarà in grado di sopportare. Nel giro di qualche settimana la fanciulla si ammala, deperisce, infine muore. E sul letto di morte ancora protesta la sua innocenza. Da allora secondo la gente del posto ogni 30 giugno,anniversario del debutto in società del sacro pasticcino, di mattina all’alba, nello spiazzo antistante la chiesa di Croce di Lucca, proprio ad un passo dal fabbricato grigio del Policlinico vecchio, si sente aleggiare un profumo di sfogliatella e dietro le grate dell’antico convento un’ombra diafana si muove lenta, dolente. E’ la principessina di Cellammare che torna per reclamare la propria innocenza.
_________________ I
|