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Cerri e altre querce 
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Riporto un brano di Costanza Lunardi che ritengo molto bello.
Ciao a tutti,
Jacopo


Il primo istinto scoprendo i cerri nel bosco fu ludico: ne contammo al momento sei o sette in un’area a portata dei nostri occhi, e il gioco fu “è mio”, “è tuo”, “no, preferisco questo”. Difficile è eleggere l’albero tra grandi alberi di uguale bellezza. Questo con il tronco ferito da un fulmine e una chioma allargata da spingere ai margini tutte le altre piante, o questo gigante che si è accaparrato la parte fitta del bosco? Sparpagliati tra le roverelle questi alberi protagonisti dal tronco dritto e regolare, il portamento maestoso, vegetali di grande respiro, vanno scovati, quasi censiti. Ultimi a perdere le foglie che mantengono a lungo durante l’inverno, come tutto il genere della quercia, e che si conservano anche cadute sul terreno, sono poi gli ultimi alberi a rinverdire, come grandi elefanti in calore. Di bellezza assoluta in inverno, quando si accampa nitido il nudo disegno del cerro, patriarca del bosco. Elemento di stabilità, interrompe del bosco il disordine inquieto, l’immagine di luogo sorpreso dalla bufera e fissato in un arruffato impercorribile insieme di tronchi sani e rami spezzati, arbusti spinosi e residui vegetali. Quando una morbida nebbia lo attraversa, grazie alla sua natura caducifolia esso appare come una dantesca selva dei suicidi più che come bosco di collina morenica. I cerri si impongono come forme dell’antica certezza della foresta, come memoria dendrocentrica e archetipo silvano. Rappresentano i sopravvissuti, i relitti del manto forestale che ricopriva l’Europa.

Simili al rovere, si riconoscono dai frutti, che, a differenza delle comuni ghiande, sono ricoperti da una cupola irsuta, e maturano in due anni dopo essere rimasti un intero anno sulla pianta. A differenza dei roveri isolati, da ricordare per l’ esemplarità quasi da museo, tanto da essere identificati con un luogo, i cerri rappresentano ogni volta una scoperta. Una sorpresa. Come se ogni volta affiorasse dall’inconscio il soprassalto del vagare per foreste che appartenne ai cavalieri antichi.

L’ingresso nel bosco è un lampo della coscienza, l’emergere di una vaga scintilla legata alla memoria del sacro. Se la palude è un’esperienza ctonia, il bosco è sintesi di protettiva immersione panica e ansia di infinito. Il metafisico si materializza attraverso l’apparente spazio concluso del bosco-cattedrale, che presuppone la non visibilità dei confini. Eppure si sa che si entra e si esce. Più che labirinto, il bosco è un percorso simbolicamente teso verso un infinito interrotto e da rincorrere continuamente. Che riguarda anche l’universo oltre la soglia, l’abisso del sottosuolo, delle radici, universo sconosciuto e impercorribile se non da un’immaginazione che sconfini le apparenze, peregrinando tra labirinti sotterranei di nude e lignee essenze vegetali. Diversamente dall’albero, immobile, esse si estendono tra buio linfa e terra: quale intreccio là sotto, aderenze e forme, e diramazioni in verticale: sempre più verso l’invisibile oscuro? o anelito di affiorare?

Che la foresta sia di roverella, carpino e corniolo, platano e pioppo, frassino e olmo, sambuco e viburno, il suo ingresso è attiguo a un contatto altro, accanto all’esperienza del qui e ora. Un segno, una traccia, come un graffito litico. Linguaggio familiare e ignoto, ricordo primigenio del nostro bipolarismo emotivo, sospeso tra confidenza e paura. Che sia severo e arboricolo, oppure addomesticato dalle fioriture di aglio orsino o anemone nemorosa, il bosco rimane sempre la “selva”.

“…../Ma, gloria avara del mondo,/ d’altre stagioni memoria deforme,/ resta la selva/”.


Costanza Lunardi

testo contenuto nel libro "Il falco e la rosa" di Costanza Lunardi, Grafo editore Brescia 2004, libro di ispirazione naturalistica ma non solo, legato al territorio, con le fotografie di Giorgio Mutti, che ha vinto il premio speciale della giuria Giardini Botanici Hanbury edizione 2005

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Conservare la biodiversità è impossibile, finché essa non sia assunta come la logica stessa della produzione. Non è infatti inevitabile che la produzione si contrapponga alla diversità.
Vandana Shiva


06/11/2009, 12:38
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E per chi non conosce il Cerro - Quercus cerris L.
http://www.agraria.org/coltivazioniforestali/cerro.htm
Marco

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06/11/2009, 13:31
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Splendida specie forestale il cerro, peccato che la maggior parte delle cerrete e delle altre querce tipiche dell'ambiente mediterraneo siano minacciate e colpite dal fenomeno del deperimento. Veramente bello anche il brano.


07/11/2009, 21:50
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Un'idea: avviamento all'altofusto della cerreta e poi pascolo turnato di bovini, per esempio.
Si mantiene il bosco, si rende "produttivo" un qual cosa che altrimenti non può esserlo, si da nuova linfa vitale alla zootecnia e si arricchisce paesaggisticamente una zona.
Ciao,
Jacopo

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Vandana Shiva


08/11/2009, 10:38
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In molti siti governati a ceduo gravati da vincolo di non taglio e oltreturno nei quali si registra un eccesso di biomassa e nei quali si verificano gravosi fenomeni di deperimento si propone il taglio di conversione per l'avviamento ad alto fusto. Il pascolo turnato (ben regolato quindi e non lasciato al libero arbitrio come spesso avviene in molti boschi) dovrebbe essere sostenible per non ostacolare la rinnovazione.


08/11/2009, 22:12
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